Quando si parla di strategie per incrementare l’uso della bicicletta ci si concentra (giustamente) sugli aspetti strutturali della questione: presenza di infrastrutture, costi delle biciclette, accessibilità degli spazi urbani, disponibilità di servizi e così via. Tutto giustissimo, ma spesso si trascura un aspetto fondamentale, che il mondo del business conosce anche troppo bene. Parliamo della percezione e dell’appeal della bicicletta. Poco presente nella comunicazione  di massa, l’immagine della bici è al più utilizzata in qualche spot delle agenzie turistiche territoriali e relegata per il resto al mondo dello sport professionistico.

Il Giro d’Italia, che proprio in questi giorni attraversa il paese, si sta mostrando nuovamente in grado di appassionare il pubblico grazie alla presenza di atleti capaci di prestazioni eccezionali. Uno su tutti, la maglia rosa Tadej Pogačar. Da tempo non vedevamo adolescenti e giovanissimi a bordo strada indossare la maglia del loro campione nelle gare ciclistiche. Questo è un buon segnale che sicuramente contribuisce in modo positivo all’ appeal della bicicletta in senso ampio.

appeal della bicicletta
Foto: facebook


Tuttavia, questo tipo di ciclismo è lontano da quello di cui abbiamo bisogno per impattare veramente sulla nostra quotidianità. Anche per gli stessi praticanti delle discipline sportive a due ruote, che siano ciclismo su strada, Mtb o gravel, il collegamento non è immediato. Per paradosso, il ciclista sportivo, che è abituato a trovare il tempo per un’uscita da minimo 40/50 km, è spesso la stessa persona che ogni giorno usa l’automobile per percorrere un tragitto di meno di dieci km per raggiungere il posto di lavoro. In questo non percepisce alcuna contraddizione, perché la bici è per lui un’attività sportiva, che nulla ha a che vedere con la sua quotidiana routine di spostamenti.

Diciamoci la verità, a fare bike to work ad oggi sono soltanto quei pochi che vivono in centro città e che lavorano a breve distanza da casa, mentre sono ancora mosche bianche tutti coloro che si attrezzano per percorrere distanze maggiori provenendo da fuori città. Certo, l’aumento c’è ed è visibile, ma è proprio nel momento in cui servirebbe un incremento drastico che interviene il problema dell’appeal a fare la differenza. E su questo aspetto si sta lavorando poco.

Siamo ahimè una società abituata a muoversi sulla scia di ciò che viene messo in evidenza dai social e più in generale dalla rete, che forma ogni giorno il nostro immaginario sulla base dei cosiddetti “trend”. Per quanto possiamo essere convinti che il cambiamento dovrebbe avvenire sulla base di considerazioni di altra natura, sappiamo purtroppo che i più validi argomenti a livello sociale o ambientale non arrivano a fare la differenza. A fare la differenza è sempre più spesso un discorso di percezione, basata quasi sempre sulla percezione visiva e quindi sull’aspetto esteriore più immediato.

Una conferma di questo viene dal mondo del gravel. La bici gravel non è di per sé frutto di alcuna innovazione tecnologica. E per quanto si tratti di una forma di ciclismo votata all’esplorazione non è questo aspetto ad averne decretato la fortuna. L’esplosione del gravel si deve piuttosto all’immagine costruita attorno a questa disciplina, fatta di paesaggi da cartolina e di un’estetica di successo. Barbe lunghe e baffi, mullet e cappellini, attenzione ai colori e ai dettagli, e una narrazione che esalta l’aspetto epico e avventuroso dell’uscita in bici. Polvere e sudore, attrezzatura da glamping e vita minimal, avventura nella natura alternata a soste a base di tecnologia in cui si editano e caricano sui social le immagini e i video realizzati.

Il “problema” è che dietro la crescita di certi fenomeni c’è quasi sempre una volontà commerciale. Ho bisogno di vendere un prodotto (ad esempio nuove bici e accessori per il gravel) e faccio tutto quello che serve per renderlo appetibile. Tra coloro che vorrebbero vedere le città liberate dalle auto e le persone muoversi in bici questa logica manca, ed è spesso avversata come origine di molti dei nostri mali. Provate a guardare gli spot pubblicitari negli orari di punta in televisione e fate una stima di quanto spazio occupano anche lì in percentuale le automobili. Macchine che nel tempo si sono trasformate per rispondere ai bisogni del momento o costruirne di nuovi. Famiglie felici, giovani sportivi, socialites e fashioniste, il mondo dell’automotive si è servito di tutte le tipologie di persone per arrivare a quante più persone possibili. E’ normale che l’idea di “pubblicizzare” l’uso della bici ci provochi un senso di fastidio, dato che il mondo automobile-centrico in cui viviamo sembra proprio essere il frutto proprio della pubblicità.

 Attenzione però a non sfociare in un inutile snobismo che non può che fare del male, come notava qualche tempo fa sui suoi social l’ultracyclist Omar Di Felice.

A volte sono infatti gli stessi ciclisti o sostenitori della bici a guardare con spregio chi invece alla bici deve ancora avvicinarsi. Chi magari lo fa grazie ad una bici elettrica, o chi inizia “per moda” o per curiosità senza far parte del magico mondo degli iniziati della bicicletta. Il purista della bicicletta forse vuole continuare a sentire diverso e speciale e  teme la massificazione di qualcosa (la bicicletta) che ama proprio perché lo distingue dalla massa.

Così, però, si perde di vista il quadro generale. Il quadro generale vuole che la bici sia quanto più massificata possibile, perché solo così sarà in grado di generare un vero cambiamento. Per dirla con Kierkegaard,  dobbiamo passare da un uso estetico della bici ad un uso etico. Farne un mezzo, non di separazione e differenziazione grazie al quale sentirsi unici e aggiungere qualcosa alla nostra personalità, ma uno strumento di unione, che ci ricordi quanto ci accomuna agli altri esseri umani e ci rende tali. La bici sarà allora un antidoto potente, se così intesa, all’individualismo sfrenato che ci sta segregando gli uni dagli altri e che sta producendo più danni di qualsiasi automobile o ciclabile mancata.

Voi cosa ne pensate?